La tutela penale del marchio: tra fede pubblica e interessi privati
L’elaborato nasce dall’esigenza di esaminare la risposta che l’ordinamento dà a fronte dell’intensificazione del fenomeno della contraffazione.
Invero, negli ultimi decenni, sono state molteplici le cause che hanno portato la contraffazione ad assumere connotazioni macroscopiche, così costringendo il legislatore ad ampliare le maglie della tutela penale.
Tra i fattori che hanno determinato la diffusione di questo fenomeno si annoverano certamente la globalizzazione (che ha favorito lo sviluppo non solo di attività economiche lecite, ma anche illecite), i bassi costi di produzione (dovuti al mancato pagamento di imposte sui profitti, all’impiego di lavoratori assunti “in nero” e all’assenza di spese per la ricerca), l’aumento delle vendite online e la scarsa sensibilità dell’opinione pubblica rispetto al reale disvalore della contraffazione.
Anche l’affermazione della funzione suggestiva del marchio ha avuto, in questo senso, un ruolo fondamentale, poiché ha indotto i titolari del segno a investire più sulla pubblicità che sulla qualità dei prodotti. Ciò, infatti, ha comportato, da un lato, un accreditamento del marchio pubblicizzato presso i consumatori, tale per cui non vi è neppure più interesse, da parte di questi, ad una corrispondenza effettiva del marchio alla provenienza indicata e, dall’altro lato, ha determinato una riduzione della differenza qualitativa tra prodotto contraffatto e prodotto autentico.
Partendo dall’esame di questo problema sociale, la trattazione verte sull’analisi delle norme incriminatrici storicamente preposte dal legislatore alla tutela penale del marchio: gli artt. 473 e 474 c.p.. L’art. 473 c.p. prevede la punibilità della contraffazione e dell’alterazione (condotte consistenti nella riproduzione di un marchio ossia nella creazione di una sorta di controfigura tale per cui, fra il marchio autentico e quello contraffatto vi è una forte somiglianza che compromette la funzione distintiva del segno autentico) nonché dell’uso di un marchio falsificato (condotta i cui limiti sono stati oggetto di dibattito in giurisprudenza per la configurazione della responsabilità penale).
L’art. 474 c.p., invece, sanziona penalmente tutte le condotte appartenenti all’iter criminis originato dalla contraffazione: l’introduzione nel territorio dello stato, la detenzione per la vendita, la messa in vendita e la messa in altro modo in circolazione di prodotti con segni contraffatti. Per individuare con precisione la condotta cui il legislatore attribuisce rilevanza penale, peraltro, si deve avere riguardo della funzione svolta dal marchio autentico e di quella in concreto compromessa tramite la contraffazione: è punibile ogni comportamento riproduttivo del segno che vada a creare confusione laddove dovrebbe esserci distinzione.
Per certo, il giudice penale dovrà realizzare, analogamente a quanto accade in sede civile, il cosiddetto giudizio di contraffazione. Trattasi di un giudizio di confondibilità (il cui fondamento normativo è rinvenibile all’art. 20 c.p.i.) strutturato su due livelli differenti: da una parte è effettuato un confronto concernente i marchi (quello originale e quello che si presume contraffatto), dall’altra un confronto concernente i prodotti o i servizi contraddistinti dai marchi che vengono in considerazione. Tale valutazione è eseguita assumendo quale parametro il consumatore medio e con la consapevolezza che, nel ricordo mnemonico e sommario del marchio genuino, molte differenze tra i segni possono perdersi.
Devesi precisare che, in ambito penale, vengono recepite le deroghe sancite dal legislatore civile al principio di relatività della tutela: in presenza di un marchio di rinomanza è infatti sufficiente che, da un giudizio in via globale e sintetica, risulti il rischio di confusione fra il marchio di rinomanza e quello in contraffazione, senza che abbia alcun rilievo l’esistenza di identità o affintià fra i prodotti o i servizi contraddistinti dai segni.
Questa forma di tutela allargata trova la sua principale ragione giustificatrice nella considerazione per cui il marchio di rinomanza, a differenza di quello ordinario, induce il pubblico dei consumatori ad associare al marchio un prodotto che rispetti un determinato standard qualitativo e, dunque, ad acquistare anche prodotti diversi da quelli generalmente identificati dal marchio che siano posti sul mercato con quello stesso marchio, nel ragionevole convincimento che anche quei prodotti , seppur differenti, rispetteranno quello stesso standard qualitativo.
Nel corso del tempo (dalle isolate disposizioni presenti in alcune costituzioni preunitarie fino alle norme introdotte nel Titolo VII del Codice Rocco novellate, da ultimo, con la L. 99/2009), la fisionomia di questi delitti è notevolmente mutata e sono sorte numerose questioni problematiche che hanno dato luogo a orientamenti (giurisprudenziali e dottrinali) differenti e, talora, contrastanti.
Il legislatore, peraltro, non ha sfruttato le occasioni in cui è intervenuto sul testo di legge per porre fine agli accesi dibatti: non è infatti riuscito nell’intento di dare organicità alla materia proponendo una soluzione definitiva alle questioni controverse.
Ancora oggi si discute circa la corretta individuazione del bene giuridico protetto dalle norme in questione:
- secondo un indirizzo è rappresentato esclusivamente dalla fede pubblica intesa quale generale affidamento dei consumatori nei marchi e segni distintivi che individuano opere di ingegno e prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione (a sostegno di questa tesi si adduce la collocazione sistematica delle norme in questione nonché l’assenza di un richiamo al danno del titolare della privativa quale elemento costitutivo della fattispecie penale);
- secondo un diverso orientamento i reati in questione sono suscettibili di ledere tanto la fede pubblica quanto i diritti patrimoniali dei titolari dei marchi: sarebbe dunque sufficiente la lesione (o la messa in pericolo) dell’uno o dell’altro bene per configurare la responsabilità penale; i sostenitori di tale indirizzo forniscono come argomentazioni l’attribuzione dei diritti e delle facoltà generalmente spettanti alla persona offesa al titolare della privativa, il fatto che la funzione cardine del marchio è quella distintiva (ossia di indicatore della provenienza aziendale) e il recente inserimento nel testo dell’art 473 c.p. della formulazione “potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale”, formulazione che sembrerebbe porre in posizione di preminenza la proprietà privata del titolare del marchio.
La problematica prospettata viene analizzata effettuando considerazioni sulla funzione sussidiaria che il diritto penale svolge nel nostro ordinamento: la sanzione penale deve essere applicata a condotte munite di particolare disvalore e non suscettibili di essere inibite tramite il ricorso agli strumenti del diritto industriale civile (rafforzati e armonizzati negli ultimi decenni). L’adesione alla seconda tesi potrebbe dunque condurre ad esiti poco soddisfacenti come a quello di sussumere nelle norme incriminatrici in esame condotte di disvalore profondamente eterogeneo.
Si segnala anche un terzo orientamento (emerso dopo la riforma del 2009 e fortemente criticato) secondo cui le modifiche avutesi con il D.Lgs. 480/1990 (in sede civile) e con la L. 99/2009 (in sede penale) avrebbero determinato un mutamento radicale del bene giuridico tutelato; nello specifico il marchio sarebbe stato spogliato di ogni sua funzione e sarebbe rimasto rilevante solo in quanto proprietà aziendale: ragione per cui la proprietà industriale (e non più la fede pubblica) costituirebbe l’oggetto esclusivo della protezione penale.
L’accoglimento dell’una o dell’altra teoria ha risvolti pratici notevoli, soprattutto con riferimento alla questione sulla rilevanza penale o meno del falso grossolano (ossia del falso così immediatamente riconoscibile da non poter indurre alcuno in errore): taluno ha escluso l’integrazione della fattispecie penale (invocando la figura del reato impossibile ex art. 49 comma 2 c.p.), altri hanno subordinato tale esclusione a determinate condizioni (l’inidoneità della condotta ad offendere la fede pubblica e i diritti di proprietà industriale sulla base di una valutazione ex ante circa la successiva utilizzazione del bene falsamente contrassegnato), altri ancora hanno ritenuto integrata l’offesa tipica a prescindere da qualsiasi considerazione.
In tema di falso grossolano è stato criticato un orientamento, ormai del tutto superato (ma che era avvallato da una pronuncia della Corte di Legittimità) secondo cui, ai fini dell’esclusione della responsabilità penale, era sufficiente che il contesto personale e logistico della vendita fosse stato tale da non ingannare l’acquirente circa il carattere falso del marchio apposto sul prodotto oggetto di vendita.
Ad onor del vero, essendo l’oggetto della tutela penale la fede pubblica (e non la libera determinazione dell’acquirente), si deve evidenziare che le specifiche modalità di vendita e le caratteristiche personali del venditore non valgono ad escludere la potenziale decettività del marchio falsificato: infatti potrebbe derivare una lesione del generale affidamento dei consociati dalla successiva utilizzazione del bene su cui esso è apposto.
La corretta individuazione del bene giuridico ha avuto importanti risvolti pratici anche nella definizione dei confini fra fattispecie penali diverse. La giurisprudenza, impegnata nell’indagine dei rapporti tra la ricettazione (art 648 c.p.) e il commercio di prodotti falsamente marchiati (art 474 comma 2 c.p.) ha sostenuto l’applicazione della disciplina del concorso materiale di reati (con conseguente inapplicabilità del criterio di specialità di cui all’art 15 c.p.), valorizzando la differente natura del bene giuridico tutelato (privatistico in un caso, pubblicistico nell’altro), oltreché la diversità strutturale e ontologica fra le condotte incriminate e l’assenza di contestualità tra le stesse.
Altra questione rispetto a cui si lamenta il mancato intervento del legislatore è quella concernente il momento a partire dal quale la protezione penale deve essere apprestata; partendo dall’assunto per cui la tutela ex artt. 473 e 474 può essere accordata ai soli marchi registrati (in base al comma 3 delle disposizioni appena citate), ci si interroga se sia sufficiente la mera presentazione della domanda o se sia necessaria la concessione della registrazione stessa.
Seppur in passato la Suprema Corte abbia aderito alla prima soluzione (argomentando che il marchio sarebbe conoscibile dal giorno del deposito della domanda per i prodotti in essa rivendicati), attualmente sembrerebbe condividere la seconda; ciò in quanto la fede pubblica non può essere lesa fintanto che il titolare della privativa non abbia conseguito la registrazione. Quanto appena esplicato fa emergere una profonda diversità rispetto al diritto civile: vero è che la registrazione costituisce il diritto di uso esclusivo del marchio, ma l’art 15 c.p.i. fa retroagire gli effetti dell’esclusiva al momento della presentazione della relativa domanda. Tale differenza fra tutela penale e tutela civile trova una giustificazione più che ragionevole nella differente ratio sottesa alle norme di diritto industriale civile e a quelle di diritto industriale penale: le prime infatti sono incentrate sull’interesse privatistico del titolare del marchio e sulla sua tutela, mentre le seconde trovano nella fede pubblica l’oggetto primario di protezione.
É altresì interessante notare che il Codice dalla Proprietà industriale accorda un tutela, seppur più attenuata, anche al marchio non registrato (ai sensi dell’art. 12 se esso importa notorietà generale nessuno può registrare o usare un marchio identico o simile per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o per l’affinità fra i prodotti o i servizi può determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni). In realtà, in sede penale, per i marchi di fatto non è esclusa la tutela in assoluto, ma solo in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 473 e 474 c.p. (a causa della circoscrizione del loro ambito applicativo operata dai rispettivi commi 3), potendo trovare applicazione l’art. 517 c.p., rubricato “vendita di prodotti industriali con segni mendaci” in relazione alla quale la contraffazione di marchi rappresenta una delle tante manifestazione.
È pacifico che, ai fini della tutela penale, il marchio, oltreché esistente e registrato, deve essere sostanzialmente valido (nonostante ciò non sia espressamente previsto dalla legge): esso quindi deve avere alcuni requisiti fondamentali quali novità, capacità distintiva e liceità.
In mancanza di novità e capacità distintiva infatti il marchio non è in grado di assolvere alla funzione ad esso deputata (ossia quella di indicatore dell’origine e della provenienza dei prodotti industriali), mentre, in assenza del requisito della liceità, non è meritevole di assolvere alla soprammenzionata funzione. É compito del giudice penale accertare in via incidentale (ossia senza efficacia di giudicato, ma ai soli fini della decisione) la validità del marchio poiché, da ciò, dipende la qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione (art. 2 c.p.p.).
Tuttavia, in giurisprudenza, è ormai consolidata la prassi per cui il giudice può fare affidamento su una presunzione di validità del titolo laddove non emergano prima facie palesi profili di invalidità.
Nel corso della trattazione, peraltro, si è voluto evidenziare una contraddizione insita nel nostro sistema e rispetto a cui il legislatore non è ancora intervenuto in modo soddisfacente: continua infatti ad essere affidata a pubblici ministeri e giudici ordinari una materia che, per gli spiccati profili settoriali, in ambito civilistico, è assegnata a Sezioni Specializzate. La riforma del 2009 avrebbe potuto costituire un’utile opportunità per devolvere anche la contraffazione penale a giudici specializzati, o tramite l’istituzione di Sezioni Specializzate presso un numero ristretto di Tribunali penali, o tramite l’attribuzione della competenza penali ai magistrati delle già esistenti Sezioni Specializzate civili (previo ampliamento dell’organico esistente).
Un primo passo in avanti in tal senso è stato certamente rappresentato dall’art. 50 della L. 206/2023 che ha attribuito al Ministro dell’Industria e del Made in Italy il potere di segnalare annualmente al Ministro della Giustizia i settori che richiedono una formazione specifica dei magistrati ai fini di un efficace contrasto alla contraffazione sia in sede civile che in sede penale.
Trattasi, tuttavia, soltanto di un inizio, si auspica, possa portare ad una specializzazione degli organi requirenti e giudicanti in ambito penale da parte di un legislatore più attento alle esigenze della materia.